Come scegliere un lavoro per la vita (e non morire) – Una Storia d’Amore



Il lungo periodo di crisi che le economie occidentali hanno vissuto a partire da quel fatidico 2008, ha progressivamente e radicalmente modificato la percezione personale del significato della parola “Lavoro” e di tutto il sistema valoriale che questa fondamentale sfera realizzativa porta con se. Ad un primo e traumatico momento di shock legato alla perdita di migliaia di posti di lavoro, dapprima negli USA e poi anche qui da noi in Europa, è seguita una lenta ma subdola trasformazione di modelli organizzativi, definizioni di responsabilità/ruoli, di competenze necessarie per risultare adatti al lavoro del futuro, di guerra dei talenti, di formazione continua e di re-skilling (formazione di profili senior apparentemente fuori mercato), di auto imprenditorialità e altro ancora. In una parola, ci siamo improvvisamente sentiti tutti (più o meno) degli invitati scomodi alla tavola delle organizzazioni per le quali abbiamo lavorato per anni, pur avendo alle spalle background esperienziali pesanti, titoli, certificazioni, soft skills, risultati e referenze. A tutto ciò, si sono aggiunti gli effetti, ad essere onesti necessari e utili, delle tecnologie digitali che stanno producendo i primi impatti sensibili sulla gestione ed il monitoraggio dei processi operativi, soprattutto per quei processi ripetitivi e facilmente automatizzabili. Ovviamente non ci si fermerà qui e già porzioni ben più allargate di reparti operativi sono nel mirino dei cosiddetti processi di “Digital Transformation” e “AI” (Artificial Intelligence). Il progresso non si può fermare e la trasformazione del nostro modo di lavorare sarà inevitabilmente toccata dall’ingresso massiccio della tecnologia nella nostra vita quotidiana personale e professionale.

Questa rivoluzione, ha progressivamente visto aumentare l’attenzione da parte di aziende e di consulenti delle risorse umane, verso alcuni temi di frontiera, ambigui, a volte impalpabili e difficilmente misurabili; la disciplina accademica, soprattutto nel campo delle scienze sociali e psicologiche, ha raggiunto un discreto livello di maturità, ma è una scienza giovane e dal punto di vista della misurazione di dimensioni labili come flessibilitàintelligenza emotivacapacità di adattamentoresilienzatenaciaempatia (le famose soft skills) ci troviamo troppo spesso di fronte a concetti che risultano ancora troppo influenzati da valutazioni soggettive, pregiudizi, preconcetti, pesature approssimative ed empiriche. La scienza comportamentale ha ancora molti passi da fare prima di diventare una scienza esatta, ma nonostante ciò oggi si è avviata una fase di esclusione di tutti coloro che “non hanno il profilo giusto” o non presentano i necessari caratteri del lavoratore del futuro, facendone dipendere la più o meno adeguatezza proprio a partire da queste dimensioni fragili e ambigue.

Se andate a cercare tra le centinaia di ricerche e survey pubblicate da società ed enti noti e meno noti, troverete che tra le Soft Skills più ambite compaiono sempre ai primi posti la FLESSIBILITA’ e la LEARNABILITY (neologismo anglofono che sta a significare la capacità di continua disponibilità e abilità di apprendimento).

Non mi soffermerò qui nell’approfondimento del secondo parametro in oggetto, che trovo di estremo interesse; mi concentrerò invece sul termine e sul contenuto della parola FLESSIBILITA’ e sue derivazioni (come ADATTABILITA’).

Una domanda fondamentale è: se le maglie della adeguatezza sono diventate così strette, si tratta solo di un tema di competenze o di qualcos’altro? E’ proprio vero che dobbiamo imparare ad adeguarci sempre e comunque a quanto il mondo del lavoro ci chiede di fare? Prima di darvi qualche idea pratica, vi racconto una bella storia, letta molti anni fa e contenuta in un testo a carattere educativo scritto dallo psicologo, drammaturgo e scrittore argentino Jorge Bucay: “Raccontami – Storie per imparare a conoscersi”.

SOLTANTO PER AMORE…

Cammino per la mia strada. La mia strada ha una sola corsia, la mia.

Alla mia sinistra un muro interminabile separa la mia strada dalla strada di chi mi passa accanto, di là dal muro. Ogni tanto nel muro si apre un forellino, una finestrella, una fessura… e posso guardare la strada del mio vicino o della mia vicina. Un giorno, mentre cammino, mi pare di vedere di là dal muro una figura che sta camminando al mio stesso ritmo, nella mia stessa direzione. Guardo quella figura: è una donna, è bella. Anche lei mi vede. Mi guarda. La guardo di nuovo. Le sorrido… mi sorride. Un momento dopo lei continua ad andare per la sua strada e io affretto il passo perché aspetto con ansia la prossima occasione di incontrare quella donna.

Alla finestra successiva mi fermo un minuto. Quando lei arriva ci guardiamo dalla finestra. Sembra felice di stare con me quanto io sono felice di stare con lei. Le faccio capire a cenni quanto mi piaccia. Mi risponde a cenni. Non so se hanno lo stesso significato dei miei, ma intuisco che capisce quello che sto cercando di dirle. Mi piacerebbe fermarmi un po’ per guardarla e lasciarmi guardare, ma so che devo continuare ad andare avanti…

Mi dico che più avanti lungo il cammino, ci sarà sicuramente una porta, magari potrò varcarla e incontrare lei. Nulla dà tante certezze come il desiderio, così mi affretto per trovare la porta che immagino esista. Mi metto a correre tenendo lo sguardo fisso sul muro. Poco più avanti ecco apparire la porta. E dall’altra parte c’è la compagna che ora amo e desidero, ad aspettare, ad aspettarmi. Le rivolgo un cenno, lei mi manda un bacio sulla punta delle dita.

Mi fa un cenno come per chiamarmi. Non aspetto altro. Mi dirigo verso la porta per unirmi a lei, dalla sua parte del muro. La porta è strettissima, infilo una mano, infilo la spalla, tiro indietro la pancia, mi contorco un pochino riesco quasi a far passare la testa ma il mio orecchio destro rimane incastrato. Spingo. Non c’è verso, non ci passa.

E non posso usare la mano per torcermi l’orecchio, perché non ci passerebbe neanche un dito. Non c’è spazio perché possa passarci con il mio orecchio, per cui prendo una decisione (Perché la mia amata sta lì, e mi aspetta…Perchè è la donna che ho sempre sognato e mi sta chiamando…)

… Tiro fuori un coltello dalla tasca, mi faccio forza e con un taglio netto mi stacco l’orecchio per poter far passare la testa attraverso la porta. E mi va bene, perché la mia testa riesce a passare…

Ma dopo la testa, mi rendo conto che l’altra spalla rimane incastrata. La porta non ha la forma del mio corpo. Continuo a spingere ma non c’è niente da fare, la mia mano e un pezzo del mio corpo sono passati, l’altra spalla e l’altro braccio non ci passano…

Ma non importa…Indietreggio, e senza pensare alle conseguenze prendo la rincorsa e mi slancio contro la porta. Per la botta mi slogo la spalla e il braccio rimane penzolante, come senza vita, ma adesso per fortuna è in una posizione tale che riesco a passare dalla porta…Ci sono quasi… sono quasi arrivato dall’altra parte. Ma proprio quando sto per passare attraverso l’apertura, mi rendo conto che il mio piede destro è rimasto incastrato dall’altra parte. Per quanti sforzi faccia non riesco a farlo passare. Non c’è verso, la porta è troppo piccola perché ci possa passare tutto intero. Troppo piccola, i piedi non ci passano tutti e due…Non ho un attimo di esitazione. Ormai ho quasi raggiunto la mia amata. Non posso tirarmi indietro… Così afferro l’ascia e, stringendo i denti, meno un fendente e mi stacco la gamba.

Tutto sanguinante, saltellando appoggiato all’ascia e con il braccio penzoloni, con un orecchio e una gamba in meno vado incontro alla mia amata.

Le dico: “Eccomi qui. Finalmente sono riuscito a passare. Mi hai guardato, ti ho guardato, mi sono innamorato. Ho pagato a caro prezzo il potere stare con te. In guerra e in amore vale tutto. Non importano i sacrifici…valeva la pena per stare con te… per poter camminare insieme… insieme per sempre…».

Lei mi guarda, le sfugge una smorfia e mi dice:

«Così no, così non ti voglio più… Mi piacevi tutto intero»

—–

Interessante vero? Voi direte, “ma che attinenza c’è tra una Storia di Amore e la ricerca di un Lavoro”. Io sostengo che vi sia molta attinenza, perché entrambe le scelte, quando compiute con piena consapevolezza, toccano la sfera emotivo-motivazionale di ciascuno di noi nella dimensione più profonda e, di conseguenza, sono scelte che lanciano una grande sfida a tutto il sistema “soft” individuale nelle piccole-grandi questioni di tutti i giorni.

Parlare di amore è quindi anche parlare di lavoro, prima di tutto perché il nostro lavoro e la nostra professione assorbono di gran lunga quasi tutto il nostro tempo disponibile nel corso della giornata ed è praticamente inimmaginabile pensare di investire tutto questo tempo in qualcosa che non abbia significato e valore per noi e per la nostra esistenza.

Ma ritorniamo alla nostra domanda iniziale, “Ma è proprio vero che dobbiamo imparare ad adeguarci sempre e comunque a quanto ci viene richiesto dal mondo del lavoro?” Ovvero questa celebrata FLESSIBILITA’ è sempre davvero una competenza o dietro questo termine si cela qualcos’altro?

Partirei dall’etimologia della parola stessa e dalla definizione da dizionario, già molto esplicativa; si dice infatti di FLESSIBILITA’ come “La relativa facilità di un oggetto ad assumere una configurazione curvilinea o ad angolo”. Nel mondo del lavoro si parla di FLESSIBILITA’ come “…il concetto teorico in base al quale un lavoratore non rimane costantemente al proprio posto/contratto di lavoro, ma muta più volte, nell’arco della propria vita professionale, la propria attività occupazionale e/o il datore di lavoro”. Evitando di cedere a facili ironie (prima definizione), mi sembra di potere dire che, senza alcun dubbio, viviamo già nell’epoca della trasformazione del concetto di “Posto di Lavoro” e tutta la relativa disciplina contrattualistica in questi ultimi 20 anni, ha subito stravolgimenti imponenti che ne sono la visibile e pratica dimostrazione. Viviamo già nell’epoca della “prestazione a chiamata”, un concetto molto conosciuto nell’industria IT, ad esempio, dove già da qualche anno si parla di risorse “As a Service” per descrivere l’ingaggio di funzionalità specifiche (potenza di calcolo, accesso a server, ad infrastruttura di rete, ad applicazioni software etc.). Si parla anche di “Platforming” (letteralmente Piattaformizzazione) delle risorse umane; ne sono buoni esempi alcuni portali che si pongono come marketplace tra la domanda di lavoro delle aziende e il lato offerta, composto solitamente da professionisti freelance che offrono le proprie competenze attraverso il web. Al momento solo una parte del mercato del lavoro ha assistito a queste dinamiche, ma si tratta di un trend in forte crescita, soprattutto in USA dove recenti survey hanno illustrato che già oggi oltre il 30% della forza lavoro sia composta da freelance e le previsioni parlano di una ulteriore crescita verso il 50% entro il 2022.

Possiamo definire questa dinamica una “Competenza”? Leggendo questi dati verrebbe più da pensare che si tratti di un fenomeno più o meno esogeno sul quale il singolo individuo ha ben poche possibilità di controllo, se non quelle di organizzarsi al meglio per fronteggiare un cambiamento epocale e forse irreversibile del mercato del lavoro. Ma questo non ha nulla a che vedere con una abilità che viene individuata come un elemento distintivo per competere al fine di migliorare la propria retribuzione e le responsabilità future. Essere FLESSIBILI significa quindi accettare qualsiasi modello contrattuale e qualsiasi condizione di lavoro? A ben vedere si tratta quindi di una CONDIZIONE imposta non negoziabile e, in quanto tale, non può assolutamente rappresentare un elemento di vantaggio per il lavoratore. Una vera competenza, al contrario in questo senso, è invece la DUTTILITA’, termine mutuato da una delle qualità tipiche dei metalli definita come la “proprietà tecnologica della materia che indica la capacità di un corpo o di un materiale di deformarsi plasticamente sotto carico prima di giungere a rottura, cioè la capacità di sopportare deformazioni plastiche.” Qui si che esiste un valore, ed è il valore legato alla capacità di sapere modificare i propri comportamenti, le proprie conoscenze, di sapere resistere alle pressioni e quindi di essere resiliente, di sapere acquisire nuove competenze e di usarne, se serve, anche meno di quanto conosciuto o possibile, all’essere plasmabile. Avere quindi una sorta di “Perimetro Variabile”, disegnato in base alle specifiche richieste del caso.

La FLESSIBILITA’, quindi, quasi mai rappresenta per il lavoratore una vera competenza, ancora meno alla luce delle scoperte illustrate dal nostro racconto di Jorge Bucay; il nostro innamorato indefinitamente flessibile ed adattabile, perde la sua identità, perde parti importanti del suo corpo (e del suo essere) e, seppur riuscendo a passare il vaglio e gli ostacoli che lo frappongono dal raggiungimento del suo obiettivo, finisce per stravolgere l’autenticità (e i valori) del suo essere.

Ci sono molto insegnamenti in questo racconto, per noi come lavoratori e per noi come donne e uomini impegnati a cercare noi stessi e un senso nelle cose che facciamo nella nostra vita, di cui anche il lavoro, come già detto, è una porzione rilevante. Pone, tra le altre cose, un tema importante di efficacia nell’adozione di un modello di definizione del proprio percorso di carriera, affinchè questo sia il più possibile coerente ed “ecologico”con il nostro essere. Tema questo altrettanto cruciale nella definizione dei percorsi di formazione, educazione e re-skilling, termine questo tanto in voga di questi tempi.

Si dovrebbe comprendere che non v’è vantaggio per nessuno nella imposizione e nella accettazione indefinita di modelli rigidi di conoscenze e competenze che richiedono un adeguamento senza margini di sbavatura. Se da un lato quindi, si potrebbe auspicare che le direzioni risorse umane adottino modelli più moderni ed efficaci di selezione del personale, è altrettanto vero che i tempi sono maturi perché ciascun individuo decida di prendere tra le sue mani le redini del proprio destino e impari a comprendere in autonomia il proprio valore, i propri assett e la propria “vendibilità”. E come per ogni professionista della vendita e del marketing, capisca quali sono i propri mercati di riferimento, individui le migliori strategie per permearli, elabori una politica commerciale e decida quali sono le reali opportunità da prendere in considerazione, tenendo sempre a mente il proprio progetto di carriera che si è identificato. Imparare a dire di NO ad una offerta di lavoro, potrebbe sembrare un sacrilegio di questi tempi, ma se si riesce ad identificare con sufficiente chiarezza la propria strada, tutto diviene più naturale e più facile. Le situazioni appaiono più “illuminate”, meno nebulose, le scelte anche difficili meno incerte.

Questo percorso non è esente da errori, sia ben chiaro, così come capita quando si prendono decisioni complesse e si effettuano scelte che prevedono sempre pro e contro; ma l’aver individuato con chiarezza il “PERCHE’” di quelle scelte, apre la coscienza ad un livello superiore di sicurezza personale e di accettazione dell’INCERTEZZA come un elemento naturale del proprio percorso.

Bibliografia

  • Raccontami – Storie per imparare a conoscersi” – Jorge Bucay (Edizioni Rizzoli)
  • Indagine Soft Skills for Talent” – Manpower 2014
  • The Future of Jobs” – World Economic Forum – Davos 18/01/2016 (https://www.weforum.org/reports/the-future-of-jobs)

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